Le persone che si descrivono come “dipendenti” (da sostanze, droghe, alcool, relazioni, cibo, comportamenti ecc.) raccontano spesso di un conflitto vissuto con se stessi nel tentativo di smettere di attuare un dato comportamento e l’incapacità di portare avanti questa scelta perpetuando e incrementando un senso di fallimento. Spesso l’auto-accusa è attribuita alla scarsa motivazione, scarsa forza di volontà o di incapacità che fa sentire la persona sempre più sola e sempre meno capace di vivere così come le persone “sane”, “normali” o “non dipendenti”.
“In talune circostanze d’esordio, e in seguito in modo sempre più frequente, la persona cerca la sostanza come alteratore della propria condizione psicologica, ritenuta ingestibile. Alla base di questo processo che s’innesca e si autoriverbera, vi è la percezione acquisita di intollerabilità di sensazioni emotive quali: rabbia, paura, dolore e la conseguente incapacità di autoregolazione.” (Leonardi e Velicogna, 2009, pag. 54)
La psicologia dei costrutti personali, considera la persona come fondamentalmente “impegnata a capire la sua natura e la natura del mondo e a verificare quanto questa comprensione la guida e le permette di vedere nel futuro a breve e a lungo termine” (Bannister, Fransella, 1986, pag. 29).
L’utilizzo di sostanze (così come l’uso compulsivo di internet, del gioco, del sesso ecc.) può essere visto come una scelta che porta ad una profonda sofferenza, ma allo stesso tempo che permette alla persona di adattarsi al mondo e alle relazioni nel modo migliore che conosce. Questa prospettiva, apre ad una serie di possibilità, banalmente si può iniziare a considerare quali strade alternative la persona può iniziare a conoscere.
Lo stato d’intossicazione secondo Bateson è una “scorciatoia parziale e soggettiva verso uno stato mentale più corretto.” (Bateson, 1977, pag. 339)
Ma quale può essere lo stato “scorretto” da correggere nelle persone che fanno uso di sostanze?
Sembra essere ricorrente nella storia di queste persone il fallimento nel costruire relazioni in cui si è capiti dall’altro e si comprende l’altra persona; al contrario l’altro (o sé stessi) viene investito prevalentemente dal compito di soddisfare i propri bisogni.
La persona che percepisce la propria dipendenza, spesso la sperimenta soltanto come un craving senza nome, una profonda solitudine una disperata urgenza di trovare qualcosa o essere qualcuno.” (Kelly, 1962, pag. 199)
La sostanza (o l’oggetto di dipendenza in generale) diviene dunque, seguendo queste ipotesi, un “rifugio” che permette da un lato di non percepire la propria “inadeguatezza” e quindi non amabilità, dall’altro la possibilità di non sentire il bisogno di essere amati. Va da sé che il ricorso ad una “scorciatoia”, quale può essere la sostanza, non permette di rivedere la propria idea di inadeguatezza e amabilità, perpetuando un ciclo esperienziale obsoleto con il rischio che queste idee e comportamenti si cristallizzino sempre di più: “più una persona realizza (pratica) il “sintomo” più viene riciclata in modo ricorsivo nel suo ruolo centrale (identità)”. (Kenny, 1995, pag. 105)
Considerare l’esperienza della tossicodipendenza in questi termini evidenzia dunque come il tentativo diffuso di “cura come disintossicazione” vada nella direzione di rinforzare il modo di essere sobrio della persona confermando la frattura tra lucido e intossicato, chiedendo alla persona di assumere un ruolo per lei fallimentare in partenza. (Giliberto, 1998)
Per tornare alla questione della dipendenza “Parte della soluzione risiede nella riconsiderazione del problema di dipendenza come esperienza di ogni individuo” prescindendo dunque da una visione di indipendenza come di uno status da raggiungere, ma considerando, di poter distribuire e collocare le proprie dipendenze su più persone. Kelly propone infatti una costruzione diversa alla tradizionale contrapposizione “dipendenza-indipendenza” ossia la dimensione della “dipendenza dispersa-non dispersa” mettendo in luce come “la dipendenza” sia una condizione esistenziale necessaria alla sopravvivenza. La maturità di una persona consiste allora nel “vedere le linee dimensionali della sua dipendenza estendersi verso gli altri.” (Chiari, Nuzzo, 1998, pag. 104)
Per arrivare a questo è però importante aver chiari quali sono i bisogni di cui si ricerca soddisfazione “La persona può arrivare così ad un’integrazione del proprio sistema, intesa come esplorazione attiva del proprio personale sistema di costruzione e comprensione della sua molteplicità e varietà: non è più esclusivamente una persona “dipendente”, ma una persona che ha delle necessità che possono o meno trovare soddisfazione attraverso la collaborazione con altri. In questo modo, considerandosi una persona che ha una serie di caratteristiche diverse può dare coerenza ad aspetti prima visti come incompatibili e sviluppare un senso di fiducia in sé (come persona che ha delle risorse), sicurezza (come persona che può trovare delle alternative o può permettersi di chiedere aiuto) e identità ovvero la sensazione di essere una persona unica e speciale. “La definizione più chiara e semplice dell’obiettivo della terapia dei costrutti professionali è contenuta nell’affermazione ‘la psicoterapia dovrebbe far sentire la persona che sta tornando a vivere’ (kelly, 1980. p.29). La psicoterapia, in condizioni ottimali, costituisce un’esperienza che rivitalizza e risveglia; un’impresa che infonde coraggio e vitalità. Rappresenta l’opposto della situazione in cui si perpetua una sorta di vita affievolita e intorpidita. La persona attraverso la terapia risveglia le qualità creative e spontanee troppo a lungo trascurate nell’esperienza quotidiana.” (Epting, 1984, pg 6, 7)